ROMA (MF-NW)--Nella galassia energetica globale, Israele occupa ancora un ruolo satellite, per non dire marginale. Ma le potenzialità sono alte, ed è la posizione, ancora prima delle riserve di idrocarburi, che promette di farne un attore imprescindibile nella scena dell'oil & gas. Leviathan, Karish, Tamar, l'hub del gas, fino al gasdotto Eastmed sostenuto dalla Lega, sono i progetti più esposti all'evoluzione della guerra dichiarata da Israele ad Hamas dopo gli attacchi terroristici su larga scala del 7 ottobre scorso.

La conferma è arrivata ieri con l'annuncio dello stop del giacimento offshore di Tamar, che esporta gas verso Giordania ed Egitto e provvede ai consumi domestici. Sviluppato da Chevron, Tamar si trova a circa 15 miglia dalle coste di Ashkelon, città nel sud di Israele finita nel mirino delle milizie. Sorvegliato speciale resta Laviathan, a circa 130 chilometri dal porto di Haifa, che al momento sta continuando a funzionare. Imponente come suggerisce il nome, gli si attribuiscono riserve stimate in circa 605 miliardi di m3 di gas, che ne fanno il più grande del Paese e un potenziale esportatore, come nei piani di NewMed Energy, che ha una quota di oltre il 45%. Il 39,9% fa invece capo a Chevron, che nel bilancio 2022 informa che la produzione in Israele è aumentata di 257 milioni di barili.

Il premier Benjamin Netanyahu ha già autorizzato il ministro dell'Energia, Yisrael Katz, a decretare lo stato di emergenza energetica nel Paese per le prossime due settimane, se necessario. Il 70% del fabbisogno elettrico di Israele, infatti, viene alimentato dai grandi giacimenti offshore.

Ma a rischio, alla luce delle implicazioni geopolitiche e in base alla durata del nuovo conflitto, potrebbe risultare l'intero disegno di trasformare il Levante mediterraneo da provincia gassifera a vero e proprio a hub del gas, grazie alle scoperte in Israele, alle campagne esplorative di Eni & Co a Cipro e in Libano, e al maxi-giacimento di Zohr in Egitto, operato sempre dal Cane a Sei Zampe, vera architrave del progetto. L'ad di Eni, Claudio Descalzi aveva iniziato a parlarne nel 2015 con Netanyahu.

«Mettendo a fattore comune le risorse future e le infrastrutture di trasporto e di export di Israele, Cipro ed Egitto, l'area potrebbe diventare un hub regionale del gas e fornire anche un importante contributo alla sicurezza energetica europea», si era detto nell'incontro.

Conseguenze dirette, scrive MF-Milano Finanza, si temono anche sulla capacità di Israele di continuare ad attrarre ulteriori big oil, sull'esempio di Chevron e proporsi come Paese esportatore. Di recente, per esempio, la stessa Eni ha iniziato ad avvicinarsi a Israele. L'accordo di gennaio 2023, che ha rafforzato la cooperazione con QatarEnergy e confermato l'interesse esplorativo nel Mediterraneo orientale, ha portato a una ridistribuzione degli interessi nei blocchi esplorativi 4 e 9, al largo delle coste libanesi: Eni 35%, QatarEnergy 30% e TotalEnergies, in qualità di operatore, il restante 35%. Allo studio c'è lo sviluppo di un giacimento che si allarghi alle acque israeliane, grazie agli accordi sui confini marittimi.

Certo è che nelle ambizioni di Israele di farsi esportatore, i discorsi più avanzati riguardano proprio l'Italia in chiave post-gas russo. L'allora presidente del Consiglio, Mario Draghi, aveva iniziato a parlarne nella visita di Stato del giugno 2022 a Tel Aviv, argomento ripreso poi da Netanyhau con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, nel marzo scorso.

A proposito, invece, del gasdotto EastMed, Descalzi aveva già avuto modo di elencarne le complessità. «Il gasdotto tra Israele e Italia si può fare, ma è un progetto molto complesso sul piano tecnico e necessita di un accordo con la Turchia su quello geopolitico».

red

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1008:33 ott 2023

 

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